Opera siglata Antonio Rivolta Trentino pubblicata sul giornale “La Voce Cattolica” nelle seguenti date:
* 7 luglio 1887, n. 76, I) Da Trento a Comano
* 12 luglio 1887, n. 78, II) Alla fonte
* 16 luglio 1887, n. 80, III) Campo – Vigo – Dasindo
* 19 luglio 1887, n. 81, IV) S. Croce – Bleggio
* 26 luglio 1887, n. 84, V) Stenico – Seo – Premione
* 2 agosto 1887, n. 87, VI) Villa – Tavodo – S. Lorenzo
* 9 agosto 1887, n. 90, VII) Dopo cena
* 11 agosto 1887, n. 91, VIII) Un’asinata a Ballino
* 16 agosto 1887, n. 93, IX) Excelsior
* 27 agosto 1887, n. 98, X) Per finire
3 Luglio 87.
Che volete, umanissimi lettori? La succede sempre così agli imprudenti! Si va, si va, e poi presto o tardo se ne paga il fio. A me, p. e., che tra i chiacchieroni non sono ultimo, saltò addosso nient’altro che una forte ugolite (se il termine non è proprio galonico, lo sarà adesso) e tale da temerne una bronchite e peggio, per cui dovetti lasciare le mie gravi occupazioni cittadine e ricorrere al rimedio con una bibita di queste aque cumane, assai salutari a caso mio. Già da una settimana presi stanza all’albergo “all’Opinione” condotto dal Sig. G. Alimonta e fin qui sono in tutto e da per tutto arcicontento. Le acque calde calde scendono per le gorgozzule, e l’effetto è già lusinghiero; l’organismo agisce a piacere, il bisogno di più abbondante nutrizione è sensibilissimo, e questa trovasi in abbondanza e bene condizionata presso il mio albergatore, il quale vi sa unire il sugo che dalla vite cola, bianco e nero, d’ottima qualità, che concorre a mettere il suggello dell’azione ricostruente, sì da ripromettermi in 15 giorni guarigione completa. Ma, siccome la volpe cambia il pelo, non già il vizio, così temo avvenga di me; chiacchierone prima, resterò chiacchierone anche dopo. Ora, essendo sotto cura, è imprudenza farlo e perciò mi do a scribacchiare quello che la lingua vorrebbe dire, e se tutto non è roba da cestino, fatene parte agli umanissimi lettori della “Voce”. Il tema delle mie distrazioni sarà vario anzichenò, e quale mi offriranno le escursioni di questi dintorni. Per riguardo alla lingua poi, siamo subito intesi; visto che il famoso Lotz da queste parti trovò nulla che puzzi di germanismo, non farò che mettere in ordine grammaticale il bellissimo dialetto lombardo di questa valle, facendo mie tutte le frasi prettamente italiane di questo popolo laborioso. Infine v’aggiungerò un po’ di storia balneare, necessaria per mettere tutte le cose a loro posto. Così intesi, per modo di esordio, sono tosto con voi.
Da Trento a Comano
Era il dì 27 giugno, il giorno seguente al nostro S. Vigilio. Dopo una notte insonne, cagionata dall’insuccesso della nostra festa, e per i fuochi tradizionali mancati e per la damigiana della musica al Duomo, alle ore 4 ½ m’affrettai a montare la posta verso questa direzione. Il viaggio non potea essere più felice; l’aria, rinfrescata dal temporale del giorno innanzi, entrava a grandi ondate nei polmoni mezzo atrofizzati dall’aria cittadina; il canto dell’ussignolo ci accompagnava su su fino al forte del Buco di Vela, assieme alle grate varianti del capinero ed al cicisbeo de’ fringuelli. Oh! quella era musica! Sotto l’arcata del forte vidi ancora umido del tocco de’ divoti il sasso tradizionale, sul quale il buon popolo venera le traccie del passaggio di S. Vigilio; e, senza essere superstiziosi, quella tradizione commuove però il passeggero di religiosa attenzione… Superata finalmente la sommità di Cadine, i destrieri prendono l’aire; un rapido saluto al pacifico Terlago e al mesto Vigolo, ed eccomi presto a Vezzano. Nella rapida discesa al bel paese, dal campanile alla ghibellina, mi destò care rimembranze il nome di Stoppani, che lessi segnato sulla tavolozza ove comincia il sentiero al pozzo glaciale, battezzato dalla S. A. P. col nome appunto dell’illustre geologo. Ma ahi! Che dalla gioja al dolore è breve il tratto. Se gioja m’arrecò il nome di colui che tien alto in Italia il progresso geologico, associato al nome cattolico, dolore mi arrecarono le iscrizioni ai due alberghi del paese fatte in tedesco! Che volete? Per conto mio ritengo un peccato di antinazionalità, e che quindi va tolto ad ogni costo. Andate in paesi tedeschi e se trovate colà un’iscrizione italiana e ad alberghi tedeschi, vi do il brevetto d’invenzione con medaglia al merito. Ma dunque, che proprio noi Trentini vogliamo essere degli anfibi? La tappa fu brevissima e non ebbi tempo di avvisare i proprietari di questo sconcio antipatriottico, ma lo farò al mio ritorno, se per allora non sarà fatta pulizia. La discesa da Vezzano alle Sarche è delle più incantevoli, ed io crederei ritenerla per la plaga più vaga e sorridente del Trentino. Dalle brulle vette del Gazza alle blande pendici del Bondone per vero non si estende tanto l’orizzonte, ma per quello che l’occhio non gode in alto, ne viene compensato a josa in basso. Qui i mirteti sempre verdi che attorniano gli ameni laghetti di Toblino e S. Massenza; lì gli olivi che a piccole macchie t’annunziano le aure dolci del mezzodì. Qua e là le romantiche insenature de’ laghi percorse dallo stradale; in mezzo poi il turrito castello, illustre per antichità e per la storia, che specchia le sue abbronzite mura nel cristallino dell’acque; numerosi pesciolini che ti guizzano fino all’orlo della strada, dandoti il benvenuto; l’aria infine balsamica, i vigneti del Vino santo, tutto in una parola ti imparadisa e ti invita a far qui tua dimora. Ma l’esigenza dell’orario non lo permette, ed il cocchiere fa studiare il passo ai cavalli che in pochi minuti, passato il ponte di legno sopra la Sarca, ti depongono all’ufficio postale delle Sarche. Qui l’albergo è in regola pro patria, peccato non lo sia anche pro mensa, per la quale sono tradizionali le lamentazioni. Eh! si che la quotidiana e numerosa occorrenza di passeggeri dovrebbe compensare il proprietario di un servizio più conveniente. Possibile che il gran movente del secolo, l’interesse proprio, siasi andato ad annegarsi nel Sarca vicino? Speriamo di no, e questa sia l’ultima lamentazione. – Ma proseguiamo il nostro viaggio. Qual contrasto di scena! Prima tutto paradiso, ora eccoci ai gironi dell’inferno! Su, su per le volte delle Sarche, siamo finalmente, sopra il livello del fiume all’altezza di 200 m. Uno sguardo ancora al piano, un saluto a quelle amene sponde, un augurio al ponte, dal quale stieno lungi la pece ed il fuoco del 1866 ed il brusco bacio del 1882, ed eccoci serrati in mezzo a muraglie altissime di viva roccia. Certamente fu ardimento titanico quello de’ Comuni Giudicariesi dovendosi aprire per queste rupi una strada di comunicazione con Trento, e dovrebbe ormai meritarne un compenso coll’essere dichiarata strada governiale; ma ahi! che fin qui furono desiderj e solo desiderj. Sotto il paterno regime de’ Principi Vescovi si ebbe a spese dell’erario l’apertura della strada pel Casale, sufficiente per l’esigenze di que’ tempi andati; e la gratitudine de’ Giudicariesi fu sempre costante verso il Principe; ora pare si voglia esaurirne la nota fedeltà con temporeggiare sì lungo, che sembra degenerare in un amaro rifiuto. No, con questi nodi amorosi non si avvinghia un popolo disgraziato al carro costituzionale… Queste ed altre idee, similmente tetre e dolorose, mi passarono per la mente nel percorso della strada del Limarò, bella in tutto il suo orrido. Finalmente una rapida svolta improvvisamente ti apre l’orizzonte giudicariese; la punta della Tosa, a sinistra della Sarca e a destra del viaggiatore, solleva la mente a pensieri più gaj e sereni. Il giovine alpinista si sente una scossa elettrizzante, il sangue scorre più rapido nelle ingranchite membra, l’aria montanina accelera i movimenti del cuore… Excelsior!… questa nobile espressione ti prorompe dal labbro enfatica… ancora pochi minuti… ed ecco in umile postura la Fonte cumana. Salve, aqua salutare! La tua efficacia per l’egro corpo umano, nota già ai vetusti Romani, è ben più ora manifesta ai non degeneri figli. La mia gola aspetta da te desiato rimedio; salve, dunque, ninfa salutare! Il viaggio è finito; corro alla stanza assegnatami; depongo con la polvere le vesti da viaggio; metto all’ordine, col cibo e col riposo, lo stomaco sconquassato e do principio alla cura…(continua)
8 luglio
II.
Alla fonte
Per chi nol sapesse, la Fonte Cumana scaturisce dalla viva roccia, e raccogliesi in piccolo antro (Sibilla Cumana?) quasi a livello della Sarca che le scorre a sinistra, ed alle falde del monte Casale, volto a settentrione. La tradizione porta che avanti questo secolo la Fonte, stando più bassa del presente, si rinvennero alcuni ruderi di antiche celle termali, con tubi di terra cotta e monete di Augusto e Galba*); ciò indicherebbe che fino dai tempi romani era conosciuta l’efficacia di queste terme. Anzi sentii un vecchio di que’ dintorni che m’assicurava aver udito da un sacerdote suo compatriota che, anni annorum, vicino all’antro sibillino, ove scaturisce la salutevole acqua, eravi perfino un’epigrafe romana portante il nome non ricordo di qual matrona, ma che il tutto andò disperso e per franamento del monte e peggio nei lavori dello stradale che si fece passare proprio sopra questi ruderi antichi e di importanza storica singolare. Forse diligenti scavi in que’ paraggi potrebbero portar luce in questa tradizione che ho riferito talis e qualis.
Una polla d’acqua abbondante, a 22° R., zampilla dal ricettacolo chiuso a chiave, e serve questa per bevanda, mentre quella che avanza viene in tubi portata alle vasche de’ bagni nei due fabbricati di qua e di là della Sarca.
Da principio la tepid’onda non si cattiva la benevolenza del bevitore pel suo grado di tiepidità e pel sapore alquanto saponaceo; ma fattane breve conoscenza, vi discende pel gorguzzole così blandamente e voluttuosamente da beverne poi a crepapelle; e se lo può fare perché è di facilissima digestione, anche per i ventricoli i più delicati. Il luogo della distribuzione dell’acqua è precisamente sul pubblico stradale; una tela stesa in alto vi ripara dai cocenti raggi di Febo, ed il movimento quasi continuo delle ambulanze carrettiere, se da una parte vi secca i timpani, dall’altra vi tiene vigilante ed in moto ginnastico per qualche mezzo giro di fronte indietro. Una visita allo Stabilimento principale, considerati sconsiderandis, vi soddisfa, perché il necessario non vi manca, anzi mercè le sollecite premure del sig. Vianini vi si presentano ogni anno delle grate sorprese in progresso. Non mancano le ajuole di graziosissimi ed odorosi fiori nel piazzale innanzi allo Stabilimento, ed un piccolo parco vi invita alla passeggiata ed ai dolci colloqui dell’amicizia, trovando di quando in quando adatti luoghi al riposo sotto vetuste piante, le quali poverette non rare volte subiscono gli sfacciati baci della Sarca che vorrebbe portarle seco nei suoi vortici, come avvenne per altre molte.
Le ore più frequentate e propizie alla bibita sono quelle del mattino dalle 8-10 e dalle 4-6 di sera. Se l’aspetto personale degli accorrenti non è de’ più piacevoli a cagione delle malattie della pelle, de’ bronchi, degli occhi, più o meno pronunciate, la cura che se ne riporta è spessissimo lusinghiera ed in tanti casi ha del portentoso. Quanti voi li vedete per gratitudine ritornare a salutare questo luogo ove trovarono una salute insperata! Non vi mancano poi di quelli che danno in lagni per non averne riportato vantaggio alcuno; ma l’acqua Cumana non è la probatica piscina dell’Evangelo, la quale sola potrebbe guarire miracolosamente certe malattie in stadj avvanzati. Il fatto però sta e si rende luminoso di anno in anno, ed è, che chi per tempo fa uso di quest’acqua, con cura paziente e protratta, riporta tali guarigioni che i fisici ne meravigliano. Dopo pochi giorni di bevanda o di bagni già ne sentite i benefici effetti; l’appetito diventa gigante, e vi sembra impossibile che dal vostro ventricolo si faccia tanta distruzione di cibo, mentre pochi dì prima appena appena era suscettibile di scarso e sceltissimo nutrimento.
Per quanto riguarda poi alle pensioni evvi da contentare tutti i gusti e le condizioni. Oltre agli Stabilimenti alla Fonte del sig. Vianini, di I e II Classe, se ne trovano varii lungo il percorso dello stradone fino al Ponte delle Tre Arche, con la massima distanza di ¼ d’ora. Il primo che vi si presenta, è l’Albergo all’Opinione, più in su l’Albergo Nazionale del sig. Michelini; subito oltre il ponte segue quello Al Ponte della Duina del sig. Parisi, poi la Trattoria Central Pension (sic) del sig. Morelli (titolo per vero singolare ed eteroclito, che si desidera cambiato presto in meglio ad onor di patria); infine quello del sig. Malacarne, che, sebbene innominato, presta come tutti gli altri que’ comodi che all’uopo si desiderano. Alle Arche noi troviamo ancora gli Uffici Postale e Telegrafico e la tappa di fermata sia delle corse di Messaggeria postale, sia di quella privata, introdotta ultimamente con felicissimo esito e sommo vantaggio pubblico. Fatta conoscenza così in fretta coi luoghi ne’ quali tutto dì avremo a trovarci, se la salute e il tempo lo permetteranno, passeremo a visitare i dintorni amenissimi, e, ciò che ci si presenterà degno di nota, secondo noi, lo passeremo volentieri ai lettori della “Voce.”
(Continua.)
9 luglio
III.
Campo – Vigo – Dasindo
In sole tre ore di commodo andare si possono percorrere questi tre paesi del Lomaso; il tempo più propizio della passeggiata può essere prima delle ore 10 di mattina o dopo le 4 di sera per non essere affrontati sgarbatamente dall’ôra del Garda, che dalla valle del Lomasone soffia a dovere.
Si ascende all’altipiano dal Ponte delle Arche per la strada di Rotte, e dopo mezz’ora siete subito a Campo Maggiore. Vogliasi o no, è questa la Capitale morale delle Giudicarie esteriori, sebbene Vigo sia capitale religiosa, e Stenico quella politica. Dunque Campo sta alle Giudicarie cisduroniane come Milano all’Italia! Scusate del paragone, e tiriamo innanzi.
Campo, luogo romano, vi presenta bella estensione di piazze e pulitezza di fabbricati, e, toltone il classico coperto medioevale della casa comunale, quasi tutto il resto è all’altezza de’ tempi da sorpassarne qualunque luogo della vallata. Ciò è naturale, perché il tasso della sovrimposta comunale vi è pure sovrano a tutti. La chiesa con campanile guelfo è congiunta ad un ex convento di Riformati, soppresso da Napoleone. Con questa soppressione dolorosamente andarono dispersi tanti scritti riferentisi alla storia giudicariese, raccolti da’ quei buoni claustrali. Dalla chiesa ritornando al paese, troviamo l’antica farmacia Alimonta ora condotta dal sig. Vero Sartorelli che ne fece un gioiello da contentare le più delicate esigenze e da assicurare pienamente medici e medicati. Preso poi qualche ristorante in una delle trattorie Vaia, Mora e Maino, sollecitiamo il passo per la visita alla regina del luogo, la Villa Lutti, chè ben lo merita.
Sia che vi fermiate all’esterno, sia che ne consideriate l’interno, troverete buon gusto e senso di arte dapertutto, e finirete per restare stupefatti della splendidezza della sala al primo piano della Torre. Contigua avvi la filanda, la quale ogni anno fa progressi. Quest’anno troviamo un vuoto grandissimo nella raccolta de’ bozzoli del Distretto, e dalle tabelle di provista, possiamo dedurre con sicurezza l’enorme danno sofferto da questa valle per la gelata del Maggio pp. nel solo ramo bachicoltura. Si portano è vero dal Distretto alcune piccole partite di bozzoli di ritardata riproduzione, ma è proprio niente in confronto d’altri anni! Preso pel viale della Chiusura dal lato di mattina, eccoci subito sulla strada che conduce a Vigo. Nella traversata, perfettamente piana, si resta meravigliati alla vista della campagna sì minutamente suddivisa in tanti appezzamenti di varia coltura, che se da un lato ha del mosaico, vi nota del resto che ogni famiglia è possidente ed indipendente, con sommo vantaggio pel progresso sociale. L’orizzonte poi incanta per la sua estensione, e ben pochi sono i luoghi nel Trentino che vi presentano eguale spettacolo. Le raccolte quest’anno si presentano meschine. Ma eccoci al paese. Vico di Lomaso (Vicus) è luogo romano per eccellenza; così ne parla l’Orsi1:
“Vi si trovarono diverse iscrizioni romane. Il luogo dovea essere importante, perché un’epigrafe ricorda il Curator Populi, carica propria anche dei vici e che avea autorità eguale all’aedilis ed al magister. Abbiamo ancora are a Giove e Silvano. Sic come in queste iscrizioni si fa menzione di gente bresciana, che occupò cariche onorifiche (come L. Cullonio Primo, decurione di Brescia e comandante di un’ala di cavalleria, L. Settimio Macrino, cavaliere, prefetto I. D. – juredicundo– e quinquennale di Brescia), così io credo, che quello fosse un luogo dove signori bresciani avevano loro possedimenti e si ritiravano a godere i freschi estivi.
Ho enumerate le divinità, che vi avevano culto; ed io penso che la Chiesa parrocchiale (decanale) sia stata edificata presso un delubro. Difatto credo che la capella dei Confratelli (della disciplina) che forma un corpo tutto staccato dalla Chiesa, alla quale fu unita più tardo con una piccola navata, fosse un tempietto. La sua struttura poligona, il modo di costruzione, di gran lunga più antico di quello della Chiesa (che è per lo meno del secolo XIII)2; il fatto, che solo fino ad una certa altezza i muri mantengono la struttura antica, lo scorgere ancora in tre o quattro lati avanzi di finestre o porticine assai basse ed otturate, il che fa credere che il livello attuale sia molto più alto dell’antico, e la somiglianza del complesso dell’edificio con altri tempietti romani, che in diversi luoghi ho veduti, tutto ciò mi farebbe ritenere d’origine romana quella cappelletta.
Concorre ad accrescere la probabilità di questa mia opinione il fatto, che ivi murate trovansi due iscrizioni, una delle quali sacra a Silvano (è un’ara), l’altra parla di un edificio innalzato dal “curator populi” del luogo. Una ricorderebbe l’erezione del delubro, l’altra sarebbe l’ara della divinità a cui era dedicato. Là presso avvi anche l’iscrizione di Giove (ora collocata in più sicuro luogo nella base del nuovo campanile), e nel bugnato della Chiesa parrocchiale veggonsi frammenti di pietre lavorate e bassorilievi, scanalature ed altri ornati, pietre che certo devono essere state tratte con molte altre da un edificio colà esistente prima della Chiesa. Ed io credo fermamente, che se un giorno si dovrà abbattere per qualche ragione un tratto o l’altro di quelle muraglie, verranno alla luce altri bassorilievi e forse anche iscrizioni”.
Fin qui l’egregio nostro Archeologo. Agli amanti di cose patrie del luogo si raccomanda tutta l’attenzione in ogni scavo che avviene in paese, perché potrebbe con tutta probabilità fruttare materiali preziosi per la storia. Mi si dice che anni fa fu trovata vicino alla strada tra Vigo e Campo un’urna di pietra e che poscia condotta in paese andò perduta! Non avvenga mai più di simili jatture in un paese sì fecondo di persone educate!..
Il paese è propizio alla pastorecchia, ed il nuovo casello modello che vidi in fine di costruzione, darà certo valido incremento a questo cespite d’entrata, da rimediare ad un passato indecoroso e dannoso. Bravissimi que’ soci che, dato un calcio al passato, si misero in una via di progresso bene inteso. L’avvenire coroni i loro sforzi giovanili e sia il loro esempio sprone ad altre imprese, che dormono neghittose per mancanza d’iniziativa.
Passato il ponte sul Dallo, ed esaminate de visù le lapidi romane al colle della Chiesa, nel ritorno per Cajano (nome di pura romanicità) non mancate di dare uno sguardo alla Valle del Lomasone che s’estende per ben due ore a mezzogiorno. La strada che vi conduce, sempre ombreggiata da due file di olmi e frassini, il verde giulivo ed i fiori olezzanti de’ prati, il placido Dallo che serpeggiando sfiora le zolle, o bagna le frondi degli ontani che s’umiliano sul suo percorso, hanno certo del romantico, e se davano l’estro poetico ad un Jacopo Vargnano d’Arco, non possono a meno di elettrizzare ancora il visitatore che ascende dal Bagno di Comano, ove la cetra pende muta dai pali del telegrafo! Era pure in questa valletta che l’illustre Maffei passava ogni autunno soavi mattinate cacciando colla civetta. Oh rimembranze!…
Ma ecco a sera la bella Dasindo ci attende; studiamo il passo chè l’ora del ritorno s’appressa. La Chiesa del luogo è di classica architettura; bellissima la porta, ricchissimi gli altari dorati e lavorati in legno. Era una volta un Santuario di M. V. Assunta in cielo; conservasi ancora un regalo di illustre divoto, consistente in una collana d’oro con brillanti e pietre preziose, di gran valore, ma presentemente di danno alla fabbriceria, dovendone pagare il relativo equivalente d’imposta. Non essendo preziosa per la rarità né per la storia, ma solo pell’entrinseco valore, non sarebbe forse miglior cosa, previo permesso, venire alla vendita di quella, onde col ricavato formarne un’altra di poco valore ma eguale nella forma, e col resto capitalizzato conservare in miglior stato la Chiesa monumentale? Videant consules! Dasindo è il paese natio di Prati, e come non correre a salutare la sua culla? Ma ahi! Che una lagrima ci cade tosto dal ciglio in segno di mestizia pel cantore della morte del Tasso! Una modesta iscrizione, di recente messa nella facciata a mezzogiorno, porta:
CASA .PATERNA .
DI .GIOVANNI .PRATI .
POETA .
EBBERO .DA .LUI .GLORIA .
DASINDO .TRENTO .ITALIA .
Semplice dettato, ma tutto verità che rende onore alla nobile mano che la scrisse ed a tutte sue spese ve la pose. Ma lagrima il ciglio a vedere la modesta casa in via di evidente deperimento, da far temere, che ove non siano cuori generosi che concorrano a ripararla prontamente, non vada in sfacelo. Ma no; ciò non avverrà, perché Dasindo, Trento ed Italia sentono viva gratitudine pel lustro ch’ebbero dal nostro poeta, e la modesta casa sua paterna starà a monumento de’ posteri.
Alla società pro Patria ed al gruppo di Campo, che desidererei si chiamasse col bel nome di gruppo Prati, l’iniziativa di sì bell’impresa. Con tale lusinghiera fiducia ritorno alla mia dimora, sperando domani proseguire le mie escursioni.
(Continua)
1)Topografia del Trentino. – Rovereto, 1880.
2) Nell’anno 1841 si venne ad abbattere, perché pericolante, il Campanile di questa Chiesa, acuminato, ottangolare alla base della punta, portante 4 croci. Sull’ultima pietra capovolta, su cui poggiava la sfera colla croce della punta, si leggeva le seguenti cifre: 1.X.8.8. Ai dotti l’interpretazione; secondo me potrebbe essere l’anno 988 od anche il 1088. Ad ogni modo nel prossimo anno sarebbe il centenario.
10 Luglio 87
IV.
S. Croce – Bleggio.
L’appetito vien mangiando, dice il proverbio; ed io direi che vien molto meglio digiunando. Così, soddisfatto per la bella gita di jeri, mi venne la voglia di continuare, e questa volta presi l’ascesa verso della bella plaga bleggina. Adopero questa parola, perché di origine romana, come sta scritto nel frammento di lapide trovato presso Bivedo ed ora al Museo di Rovereto, la quale porta scritte queste parole:
EX BLEGINA – IUSSU CŒSARIS
di enigmatica significazione.
Bleggio ha una parrocchia con sede a S. Croce e due Comuni generali col nome storico di Bleggio Superiore e Inferiore. Tempo fa era un sol Comune e si divisero pro bono pacis secondo la intenzione, non credo però secondo l’effetto. Ad ogni modo fecero benissimo a ritenere il nome antico, mentre i Comuni di Lomaso dividendosi commisero un gravissimo errore, perché fecero scomparire per conto loro il nome classico di Lomaso col quale nessuno di que’ comuni ora più viene nominato. Fortuna che esiste la parocchia di Lomaso che continua e continuerà la gloriosa tradizione, la quale per conto dei padri della patria e di chi li dirigeva sarebbe ormai per sempre dimenticata. … Ma non facciamo deviazioni chè la via lunga ne sospinge.
La strada per andarvi è tutta carrozzabile e in tre sole ore si può fare il ritorno dopo una visita alle cose degne di nota. Guadagnata l’altura di Cares (nome gallico?) nella visita alla piccola chiesetta puossi osservare qualche frammento di lapide delle prime epoche cristiane, murato innanzi alla facciata in basso, e raro nel suo genere.
Proseguendo il viaggio dopo 10 minuti siamo a Comighello; qui è d’uopo deviare di pochi passi per visitare la chiesetta di S. Nicolò che ci offre una bella sorpresa pittorica. Sono quattro pitture antichissime, due delle quali portano l’effigie poetica delle Sibille, mentre al parapetto dell’altare ammirasi in miniatura uno stupendo dipinto rappresentante la carità cristiana in numerosissime figure. Brava questa gente che seppe conservare questo tesoro dell’arte, mentre a Lomaso si lasciarono malamente perire varii quadri delle Sibille ed il vessillo militare tolto ai Veneti dai nostri nella battaglia di Calliano dei 10 Agosto 1487, il quale per concessione Vescovile veniva portato nelle processioni. Attenzione dunque, che giammai si rinnovino simili vandalismi o sperperi!
Ancora 15 minuti di piccola ascesa ed eccoci a S. Croce. Chi v’arriva per la prima volta, si ferma estatico innanzi alla Croce colossale, di granito grigio, che gli si presenta innanzi con una maestà monumentale. Stando un po’ da lungi le giuste proporzioni ingannano l’occhio sulla sua altezza; ma arrivati al piede, si capisce subito quanto sia reale la sua imponente elevazione di 20 m. Basti solo il dire che la pietra ottagona, ove discende l’asta della Croce, porta 8 nicchie di 1,5 m di altezza. Al monumento mancano ancora gli accessorj, cioè statue da porsi in queste nicchie, in quelle dell’asta, e le quattro alla base, ove sono presentemente quattro sfere granitiche. Questo monumento, votato in tempi di calamità, venne solennemente eretto nel 1863 a spese di divoti offerenti; volesse il cielo che, senza verificarsi altre circostanze simili, la pietà de’ nipoti venga presto a compiere questa solenne espressione di vera fede, che forma una delle meraviglie del Trentino..
La vicina Chiesa parrocchiale è di perfetta architettura classica, a croce latina. L’altare maggiore ha un lusso di marmi lavorati splendidamente ed in modo speciale nel cimiero e nel parapetto dello stesso. È pur classica la statua dell’Immacolata in marmo bianco, posta nella nicchia dell’altare sopra il tabernacolo e che conta più di un secolo e mezzo d’esistenza. L’altare della cappella di S. Croce, tutto in legno dorato, è pure di molto valore; quivi ammiransi numerosissimi i quadri votivi per grazie ottenute dalla Croce taumaturga, che forma spesso la meta di pellegrini giudicariesi e non solo, ma del Trentino e d’Italia. Manca a compimento di tutto questo bel quadro la cornice, cioè la facciata della Chiesa; faccio voti che la pietà e lo zelo de’ buoni bleggiani si scuotano finalmente, e seguendo le antiche tradizioni si venga ad effettuare sì bella opera; e così in questa occasione si potrebbe levare l’organo da dove presentemente sta e trasportarlo in fondo alla Chiesa con più profitto dell’estetica e dell’acustica. Avanti dunque chi può e deve darne la forte iniziativa. Fra i parochi che si segnalarono pello zelo della casa di Dio, primo e facile principe mi permetto nominare il M. R. Don Carlo Agapito Mosca da Caderzone in Rendena,1 Dottore in S. Teologia ed oratore famoso. Resse questa parocchia dal 24 giugno 1736–22 ott. 1771, e morì in sede di 75 anni. Questi al suo nome primiero di Carlo v’aggiunse quello di Agapito, quando venne nominato Cardinale di S. Chiesa Agapito Mosca da Pisa, al quale mandò lettere di congratulazione. Dalla vita un po’ singolare di questo dottissimo sacerdote mi piace riferire questo fatterello: Nei primi anni della sua cura parocchiale di Bleggio si avea comperato un suolo vicino e vi fece costruire un roccolo, dove passava lunghe ore dilettandosi nella caccia e ne’ suoi studi prediletti. Ma di notte tempo da mano ignota questa sua delizia roccolesca venne abbattuta e per intiero distrutta. Nella prossima domenica egli si volge sull’altare e dopo aver dichiarato che perdonava cordialmente al distruttore e lo dispensava dall’obbligo di restituzione per danni sofferti, così conchiuse: Da qui innanzi sarò non cacciatore, ma pastore di anime. O felix culpa!…
Chi volesse poi da S. Croce fare una scorsa alle Curazie del Bleggio Superiore, troverà amenissimo il viaggio. Nel passare da Cavrasto, paese di grandezze decadute, non senza importanza però al presente, perché tappa de’ viaggiatori per e dal Durone, non manchi di fare una visitina a quella Chiesa curata, dipinta recentemente, ove evvi la tomba del Bottesi,2 sacerdote defunto in concetto di santità. (L’articolista avrebbe potuto dircene un po’ di più. Noi conosciamo il nome di D. Gregorio Bottesi, n. a Lundo (Lomaso) nel 1754, cur. emer. di Lundo, e morto il 15 maggio 1834. Èquesti? R.) Voltando poi a sera verso Balbido, patria d’un Vescovo Crosina, si ascende a Rango, paese il più alto della parrocchia (750 m) e che segna illustri famiglie per la storia giudicariese. Voltando poscia a settentrione, a lenta discesa si attraversano i quattro paeselli formanti la Curazia di Quadra, cioè Cavajone, (in antico molto più esteso), Marazzone, Larido, e Bivedo, ove trovasi la Chiesetta, con eleganza dipinta di fresco dal Rota. In questa ammirasi di classico pennello la palla del coro, portante una Madonna col Bambino, dai lati il Battista e S. Antonio Abate ed in basso tre ritratti della famiglia Guidottini, estinta ora, ma la prima del paese all’epoca del dipinto che è il 1540. Non è senza pregio anche il quadro, appeso alla parete della facciata, del Sgozzi veronese, ove ammirasi un S. Girolamo vestito interamente da Cardinale di S. madre Chiesa.
Chi fosse amante di prospettiva non ha che da fare pochi minuti di strada all’altura di Pron, ove sono le uccellande Salvatori; da qui potrà godere uno de’ più bei panorami di questa classica vallata. Dai ruderi del Castello Restoro, che sorse ai piedi del colle attorno attorno, potrà numerare i più che 30 paesuccoli di cui è tempestato questo anfiteatro giudicariese. Da questo luogo la discesa, piuttosto ripida, è però amena e breve, e lascia soddisfatto il viaggiatore per avere ben spese quattro ore con tale istruttiva escursione. Ma il campanello invita alla cena, e faccio senz’altro punto fermo.
(Continua)
V.
Stenico – Seo – Premione
12 Luglio
Oggidì cercheremo distrarci un po’ al di là della Sarca, cioè alla sinistra, e per ciò fare passeremo al Ponte delle Tre Arche doppiamente famoso. Famoso perché diede il nome alla località adiacente delle Tre Arche, o semplicemente alle Arche, la quale sembra chiamata a divenire centro principale del movimento commerciale ed agricolo delle Giudicarie esteriori. Quivi si tengono mensilmente, tranne nei mesi di crudo inverno, i mercati di animali e grani al terzo martedì, mi si dice con numerosissimo concorso non solo de’ dintorni, ma delle valli vicine e perfino dal Regno d’Italia. Tutto si fa in regola, solo si desidera che l’autorità politica tenga un po’ più d’occhio a certe combricole e balli di contrabbando, ove si fa mercato di cose ben preziose, quale l’onestà ed il buon costume della inesperta gioventù; il che non deve giammai avvenire in paesi cattolici; a chi spetta la responsabilità di questi disordini, il mettervi rimedio pronto, perché so di un detto infallibile che suona: Dio non paga il sabato… potrebbe essere anche il martedì… Ma non moralizziamo, non è il mio forte, vado anch’io, e…, torniamo al ponte. Famoso in secondo luogo, perché fu unico tra i numerosi fratelli che restò in piedi nella ecatombe pontina del 1866, sebbene avesse già in seno la pillola da crepare.
Di sotto al ponte voi vedete scorrere impetuosa la corrente, la quale aumenta il suo cupo muggito nel sentirsi serrata la via sotto la triplice arcata. Vidi alla sponda destra il pennello, posto a salvezza del ponte, quasi del tutto corroso dalla rabbia dell’onde; so che in proposito si fecero rapporti alla presidenza del Distretto o della Concorrenza per rimetterlo in buon ordine; dunque non si ritardi ulteriormente, la reclamata riparazione se non si vogliono lamentar presto danni peggiori; e sperando che queste parole non sien dette a’ sordi, passo avanti e ascendo alla capitale politica del Distretto.
Stenico, sede del Giudizio distr., degli Uffici del Censo e Forestale, d’un posto dell’i.r. Gendarmeria e di altri annessi e connessi, vi presenta naturalmente un ambiente burocratico che lo differenzia da tutti gli altri paesi della valle, ma il suo popolo del resto si mantiene egualmente nella gran maggioranza di puro tipo giudicariese. A cagione del suo Castello ben conservato, e che vidi con un po’ di controsenso recentemente coperto in parte a tavolette di cemento, già ab antiquo questo paese fu preposto a capo del Distretto, sebbene per rispetto alla valle si trovi nella posizione di un punto qualunque della periferia. Verissimo che per conto litiganti e paganti starebbe meglio più sù, magari al rifugio della Tosa, ma pel resto de’ mortali si desidererebbe anche questa capitale un po’ più centrica.
Chi sa? visto che il progresso ha preso l’aire e che ovunque si spendono e si spandono danari in fabbriche tribunalizie e carcerarie, che non avvenga anche qui qualche innovazione? Al caso i manovali vi sarebbero pronti ad ogni momento assieme al materiale. Stenico (capo luogo degli Stoni?) è buon luogo romano. Vi si trovò l’epigrafe del veterano M. Ulpio Bellico e moltissime monete romane (Orsi l. c.) Il Castello naturalmente vi occupa la posizione più amena e romantica, e da qui si prospetta come in vasto panorama gran parte della valle; su quest’altura fuvvi al certo un arce romana, sopra la quale si rifece il presente fabbricato in epoca posteriore, ove i P. Vescovi di Trento tenevano un Luogotenente per tutte le 7 Pievi.
La chiesa, di recente costruzione, è dedicata a S. Vigilio e ciò forse per consolidare la tradizione popolare del suo passaggio da questa parte alla evangelizzazione della Rendena. È vero che molti altri opinano che il S. Martire sia andato nella valle rendenese dalla Valle del Nosio pel passo di Campiglio, ma non avendo documenti certi su questo punto, io sto coi primi per la tradizione più probabile, e ritengo sia andato S. Vigilio in Rendena per la strada di Toblino, Ranzo, Banale e da qui per Stenico e forse anche pel Durone, ove il passo è facile per natura sua. Ai dotti del paese lascio assicurar meglio questo punto storico di non poca importanza, mentre passo ad altre distrazioni.
Da qui ascendendo a mattina con strada buona a breve si arriva a Seo, il paesello più alto di tutta la valle ed in posizione tale che vi dà il più bello ed esteso panorama del bacino distrettuale. Dalle finestre della canonica oltre 40 paeselli vagamente dispersi si presentano alla vostra vista. Le svariate scene poi topografiche, gli sfondi e le sfumature di vallette amene e di colli pittoreschi, la larghezza dell’orizzonte, le vette dei monti a piramide, a cocuzzoli, a merletti, a ridossi arrotondati, il fiume (la Sarca ben inteso) quale arteria principale in cui si versano torrenti spumanti, placidi ruscelli, ed umili rigagnoli, presentano tale materiale al pennello del pittore od al fotografo da essere inesauribile. Faccio voti che nell’interesse del paese si moltiplichino le riproduzioni fotografiche di questi luoghi, che in un non lontano avvenire son chiamati a diventare una seconda Svizzera. Che se al presente siamo ancora in ritardo, tutta la colpa è di questi valligiani, che lasciano ignorare al forestiero questi tesori alpini. Dunque mano all’opra da chi sente sincero amor di patria… Mi distacco a malincuore da questo luogo incantevole e precipito in pochi minuti a Premione, paesello presentemente poco considerato, mentre in antico era il prescelto per le unioni di regola di tutte le Giudicarie esteriori, come Preore era per quelle interiori.
Per quanto domandassi, non trovai qui nessuna raccolta di memorie patrie e forse perché in allora non si aveva uno stabile ufficio ove custodire i relativi conchiusi; nessuna meraviglia per questo, mentre anche al presente si tengono le sessioni distrettuali in qualche trattoria alle Arche, senza avere un luogo fisso ove riporre i protocolli rispettivi, i quali formerebbero tanti documenti storici, e così trasportandoli or qua or là dai vari presidi che si succedono, si finisce col lasciare alla storia delle semplici congetture e tradizioni incomplete. Non sarà certo una pretesa fuor di luogo, il raccomandare ai padri della patria di stabilire un luogo opportuno al Ponte delle Arche, che sia di proprietà esclusiva del distretto e quivi tenere le unioni comulative eventuali. Meriterebbe poi assai per la storia chi vi facesse la raccolta delle memorie importanti che si trovano qua e là sparse nel dimenticatojo di tante cancellarie comunali, di qualche archivio canonicale e forse ancora di qualche famiglia di antico lustro. Ma l’ora è tarda; e non vorrei che questa distrazione mi facesse dimenticare la cena, alla quale lo stomaco non vuol per niente rinunciare; ripasso quindi il ponte e, con soddisfazione della cuoca, arrivo in punto al Benedicite.
(Continua)
VI
Villa – Tavodo – S. Lorenzo.
Questa volta non sono solo nella lunga gita; un asinello compagno viene in aiuto propizio. Dalla Fonte Cumana per ripidissimo calle siamo presto a Villa, ove parecchi miei compagni, bevitori d’acqua, prendono e vitto e alloggio. Qui mi colpisce il campanile di nuovissima costruzione, il quale disgraziatamente non sta in proporzione colla medesima chiesuola. Sperasi che i buoni villani penseranno anche al principale, dopo aver compiuto l’accessorio. Nel circondario del paese e su su fino a Sclemo vedonsi molte viti coltivate, in qualche luogo, secondo le regole di Nane Gastaldo; peccato che quest’anno le abbia rovinate il gelo. Da Sclemo, discendendo per romantica valletta tra boschi e prati, poco dopo eccoci a Tavodo, sede della Parrocchia del Banale. Banale è nome generale, come quello di Lomaso e Bleggio né più né meno. La Chiesa è di antica architettura, di buon gusto e ben posta. Tra la serie dei parochi di Banale, la quale comincia già dal 1208, poco su poco giù come di quelle di Lomaso e Bleggio, trovo di ricordar qui Carlo Orlando de Lutti di Poja, Dottore di S. Teologia (1707-1763). Questi era ancora poeta e diede alle stampe coi tipi di Gio. Ant. Brunati un opuscoletto sotto il titolo “Le litanie della Vergine contate in Pindo dalla Musa Toscana, di Carlo Orlando Lutti, Trentino, Arciprete del Banale. (Si vede che la parola Trentino è da un pezzo in bocca ai nostri sacerdoti, e non è già una moda moderna come bestemmiano gli Austriaci ed i Tirolenses.) Questo sacerdote era poi dotato di tale memoria che ripeteva subito e nel medesimo ordine 200 parole delle più strambe ed esotiche che gli fossero state dette una volta sola! Morì di 89 anni, dopo 56 di parrocchia e fu sepolto nella Chiesa parocchiale, facendogli l’elogio funebre il Dottore Carlo Agapito Mosca, Arciprete del Bleggio. Morì il nostro Dottor poeta in tale povertà che il fratello Lodovico, Capitano di Brentonico e poscia Consigliere Aulico di Trento, dovette sostenere lui le spese del funerale. Nella facciata di questa Chiesa, sotto l’atrio, evvi pure una lapide alla memoria del D.r Giovanni Serafini di Ragoli, medico distinto e peritissimo nelle scienze naturali, (n’era stato professore all’università di Pavia) morto ai 27 luglio 1850 (gettato a terra sulla piazza di Dorsino dal proprio cavallo ch’egli volea arrestare, mentre imbizzarito scorazzava attorno senza ritegno. Chi aggiunge questa nota, si rammenta benissimo la grave figura del dottore e l’obito grandioso che gli fu fatto con un concorso straordinario di popolo. R.) Egli è chiamato dal Perini Genio benefico di queste Valli giudicariesi.
…Ma proseguiamo il viaggio per S. Lorenzo. La tetra valletta per cui ora passiamo, formata dalle corrosioni del Rivo d’Ambies, ci lascia vedere la Tosa e le punte vicine, ed un’aria fina fina che discende da quelle gole, se siete alpinista, vi elettrizza, se siete poggia piano vi mette i brividi di spavento. Che volete? siamo fatti così, ed i gusti, sono varii ed ancora opposti circa il medesimo soggetto. Traversato il modesto ponte del torrente, siamo subito a Dorsino e qui la scena è tutta mutata. Dalle ghiaje nude della valletta siamo d’un tratto passati alla vegetazione la più rigogliosa, ed io credo che in questi dintorni e giù giù fino ai burroni della Sarca siavi la plaga migliore delle Giudicarie esteriori.
Difatti a Dorsino ed a S. Lorenzo voi ammirate i più bei vigneti coltivati all’ultimo gusto. Se poi ne assaggiate i prodotti, voi restate sorpreso trovandovi dei Riesling, dei Borgogna e dei Portoghese che credete originali, e sono invece indigeni! Eppure, dirà il lettore, non fu qui ove per poco si introduceva il flagello delle viti, la fillossera, coll’importazione da luoghi infetti di majuoli e barbatelle? Si, proprio qui, e se volete farvi additare i singoli luoghi dove quelle viti vennero piantate, voi troverete ora il vuoto fatto dalle disinfezioni praticate.
Anzi di più; que’ solerti viticultori sono là tutto occhi alla ventura vegetazione, per vedere se mai potesse darsi qualche indizio di infezione, onde subito dare addosso all’inimico. Io spero che per questa parte non v’è più da spaventarsi per ciò; resta solo di far voti che ovunque si pratichino con attenzione quei rigori che si usano qui, onde tutto il Trentino ora e sempre sia esente dal temuto flagello. Fatta una traversata ai varii paeselli onde consta il Comune di S. Lorenzo e visitata la stazione metereologica presso quel R. Curato, non manchiamo di ascendere il monticello ove sono i ruderi del Castello Mani, di certa origine romana perché vi ricorda un tempietto ai Diis manibus. Anche di qui godesi la più pittoresca delle scene. A mezzogiorno voi vedete tutta l’estensione delle Giudicarie Esteriori nella sua imponenza; a sera su su per gli orrori della Valle d’Ambies voi scorgete le ultime nervature del Gruppo di Brenta e salutate le nevi eterne; a settentrione la frazione delle Moline e più su il Lago di Molveno; a mattina il Limarò cogli abissi della Sarca che mugge tra profondi burroni. Il punto è strategico per eccellenza, e se non vediamo alcun fortilizio, è perché lo dà già la natura del luogo. La strada che vi passa al piede e che poi per Molveno si prolunga per la Valle del Nosio, era la sola libera alla ritirata del 1866, e per questa passarono tutte le truppe che stanziavano in Giudicarie all’ultim’ora. Ma discendiamo dal promontorio e, mutando strada, ritorniamo per Andogno al nostro albergo. Il ciucciarello sentendo il bisogno della greppia, accelera il passo senza tanti stimoli, e già all’ora della cena salutano il mio ritorno gli altri soliti commensali, desiosi poi d’udire i poveri appunti del mio taccuino.
VII.
Dopo cena.
Ohe! Signor distratto? Abbiamo un po’ di conti da fare con lui questa sera.
– E che cosa volete dire?
– Oggidì, andando e ritornando dalla Fonte, abbiamo sentito a carico vostro qualche lagnanza un po’ viva, e non vorressimo, noi, vostri compagni di mensa, essere partecipi della colpa eventuale.
– S’intende, avete mille e una ragioni. Ma, di grazia, si potrebbe sapere almeno qualcuna di queste lagnanze, onde al caso rimediarvi?
– Prima quella del sig. Trattore delle Sarche, il quale si sentì bollato dalle vostre critiche. Anzi fu qui in persona per sapere chi fosse l’ardimentoso chiacchierone.
– Mi rincresce non averlo saputo, chè in persona avrei ripetuto quello che ho già scritto. Sono contento però di aver scritto quello che fu stampato, perché vedo che portò già i suoi frutti, e siccome il nostro albergatore delle Sarche è persona ammodo, vedrete che da qui innanzi non si farà dare più degli appunti in proposito; anzi sarà grato a quella mia distrazione, perché in avvenire avrà più concorrenti e questi, restando contenti della tavola, facilmente faranno onore anche al suo Vino Santo di fama europea. E del resto c’è altro?
– Qualcuno si lagnò perché avete messa la Fonte Cumana al livello della Sarca, mentre è oltre 10 m più alta.
– Capisco, costui teme forse che con ciò scapiti la purezza dell’acqua, non è vero? Ebbene, osservo a costui, che io ho scritto: quasi al livello della Sarca; e questo quasi mi par bene che valga i 10 m e più, se lo mettiamo al confronto collo spazio dalla cima del Casale alle onde del fiume. Che ve ne pare? È troppo scrupoloso costui.
– Un’altra; siamo stati jeridì a Dasindo, ed oltre a quello che avete veduto e notato voi, vi abbiamo ammirato un dente colossale di elefante pietrificato; e questa mattina avendo fatto una passeggiata fino a Cares abbiamo osservato dei frammenti di lapidi romane nel muro del cimitero e ai lati della Chiesa, mentre nella facciata c’è poco o nulla.
– Benedetti voi, ma non ve l’ho detto prima che le mie sono distrazioni e non attenzioni? E poi i gusti son gusti, e quello che avete ammirato voi, forse per me non era degno di ammirazione. Sentite a proposito un casetto che ho udito io stesso dall’autore con queste due orecchie. Un mio compare, contadino s’intende, ma del resto che credeva saperla lunga, fu pei suoi affari a Milano. Milano! È certo una bellissima città, e vi conta delle meraviglie spettacolose, sì che ognuno, che vi capita la prima volta, resta stupito p. e. ammirando quel colosso che è il Duomo colla selva delle sue guglie, e la magnificenza della galleria V. E. e tante altre mille cose degnissime e belle. Ebbene mi sapreste dire qual fu la cosa che maggiormente colpì d’ammirazione il mio compare? Non lo indovinate neppure se foste ipnotizzati alla Donato. Fu nientemeno, un enorme ceppo da macellaio (se ridete avete ragione), sul quale quattro garzoni tagliavano allegramente e comodamente un manzo intiero! Egli si sforzava ad assicurarmi con tutta serietà che una meraviglia tale non l’ebbe mai più veduta e che non si potea vedere al mondo! Vedete che razza di gusti, che genere di impressioni! Non fate dunque le meraviglie se anche un distratto, come son io, ha le sue impressioni e non ha tutte quelle possibili. Vedete; faccio le mie gite così alla sfuggita, per solazzo e non già per studio; questo potrebbe impedire l’effetto prodigioso delle acque, ed allora addio, povera mia gola, mi dovrei dare a studiare mutologia, alla quale per nulla mi sento inclinato.
– Ma il dente di Dasindo è una rarità!
– Chi lo nega? Anzi se fosse dente di Balena, come lo chiamarono certi messeri, sarebbe più che raro, sarebbe unico nel suo genere. Di questo dente già parlò un mio amico nella fu Riva Fedele e a tutte sue spese lo illustrò e ne fece fare copie in gesso che regalò ai nostri musei e senza averne un grazie; tutt’altro! Sapete che? A Dasindo, se avessi avuto tempo, sarei andato a vedere invece il famoso Noce degli Aloisi che diede il nome alla guerra delle noci del 1579; ma penso che ormai ne avran fatto tanti fucili in questo tempo di militarismo contagioso.
– Ma come, ci fu una guerra delle noci a Dasindo? Bella quella guerra per certo, perché ne avrà ammazzato molto pochi!
– Se mi permettete, giusto così per finire il chilo, andiamo qui al fresco del glorietto e ve ne dirò quel che so!”
– Assai volentieri, andiamo.
– Conticuere omnes, intentique ora tenebant! Bisogna che premetta ad onor di questo popolo giudicariese, che benevolo ci ospita, che per natura sua gli abitanti delle sette Pievi sono dei più fedeli alle costituite autorità, e che nella lunga storia di queste valli due sole volte si nota esservi stato della ribellione al governo civile, e ciò se da una parte conferma la regola di fedeltà, d’altra parte lascia arguire che vi furono proprio tirati pei capelli da aperta ingiustizia. Ecco dunque il primo fatto, riservandomi a tempo opportuno accennarvi il secondo.
A Cristoforo Madruzzo, Cardinale rassegnante addì 14 Nov. 1567, successe nella Sede Vescovile di Trento il nipote Lodovico Madruzzo. Questi per ben 10 anni stette a Roma prima di sedere nella sua cattedra vescovile trentina, perché non voleva giurare le Compattate (convenzioni) che si voleano imporgli dalla potestà civile, in mano allora di Ferdinando Arciduca d’Austria. Finalmente colla mediazione del S. P. Pio V il Vescovo nostro cedette pro bono meliori, firmò queste compattate e venne finalmente nella sua Sede. In conseguenza di ciò l’Arciduca Ferdinando si affrettò con lettera pubblica da Innsbruck, in data 2 Giugno 1579, a comandare che tutti i sudditi del Vescovado di Trento prestassero essi pure il giuramento sopra diversi punti delle compattate.
I Giudicariesi però non capirono questo comando, di nuovo genere per loro, e restarono anzi saldi nel sostenere i loro diritti, provenienti da privilegii antichi e fin allora solennemente dichiarati e confirmati da tutti i Vescovi trentini, diritti e privilegi che ora venivano gravemente offesi dalle compattate. All’invito quindi del P. Vescovo di dover firmare, come fece lui stesso, queste gravose convenzioni, essi rifiutarono addirittura; anzi unitisi in comizio popolare sotto il gran Noce degli Aloisi sopra Dasindo (ecco il perché del nome di guerra delle noci) stabilirono formalmente di negare le firme in modo perentorio. Di più, spediti messi a Padova, con 100 scudi si procurarono un bel ragionato Consulto dal sig. Cefola, ferrarese e primario lettore della Università padovana, nel quale era chiaramente provato qualmente i Giudicariesi non erano affatto obbligati al giuramento delle compattate. Sodi quindi nei loro diritti, non vollero cedere per quanto paternamente volesse persuaderneli il P. Vescovo, e recisamente si opposero avanti al Commissario politico, il Particella.
Vista questa formale opposizione al Particella, non restò che usare la forza, e quindi fatti venire nella valle 360 soldati regolari tedeschi, sotto il comando del colonnello d’Arco e del commissario Vescovile Fortunato Madruzzo, si venne a zuffa cogli uomini delle tre Pievi di Lomaso, Banale e Bleggio, presso Dasindo addì 18 dicembre 1579.
I giudicariesi rimasero però soccombenti, e numerosi furono i prigionieri fatti sul cimitero e nella stessa Chiesa di Dasindo. Il giorno dopo accorsero frettolosi ed in grandissimo numero in aiuto de’ fratelli que’ delle altre 4 pievi, e pel Durone vennero ad accamparsi al Bleggio. Ma questi avendo poi veduto schierati nella campagna di Lomaso i soldati regolari e temendo fossero più numerosi di quello che erano in realtà, non ardirono attaccarli. In questo pericoloso frangente d’ambi le parti, si interpose il commissario Vescovile Madruzzo, e si limitava a chiedere il giuramento di soli due punti delle compattate cioè:
1° Che in caso di guerra tra il Vescovo e il conte del Tirolo, restassero i giudicariesi neutrali.
2° Che, sede vacante, dovessero riconoscere il capitano tirolese.
Ma i giudicariesi erano titubanti ancora, anzi si preparavano a dire un no solenne e confermarlo col sangue. Durante questo piccolo armistizio oltre 500 soldati collettizii capitarono a tutta corsa dalla Val Lagarina e Val di Ledro per Ballino a rinforzo della truppa regolare. I giudicariesi sopraffatti dal numero e dalla forza, con vergogna e confusione si dovettero sottomettere al giuramento delle compattate, il quale realmente si prestò dai capi-famiglia in Tione. I prigionieri fatti in Dasindo, furono condotti nel Castello di Stenico e fatto poscia il processo, si condannarono 30 de’ più sediziosi. Tra questi Stefano Pizzini della Pieve di Bono alle carceri in vita; Giacomo Fostini e Colò de’ Pazzet da Tione banditi; Antonio Armani notaio di Fiavè a 100 ragnesi di multa e sospeso dall’ufficio per 5 anni; Angelo Conzatti a ragnesi 300 e sospeso per 5 anni.
– Bagattelle!!
– Ecco quanto; l’ora è tarda e a tutti buon riposo.
– Felice notte. Grazie del racconto.
– Grazie a voi, che aveste la pazienza di ascoltarmi. A domani.
VIII.
Un’asinata a Ballino.
– Vien qua, Beppi; dinne anche tu il tuo parere.
– Che cosa comandano, signori?
– Avremmo pensato di fare domani un’asinata fino a Ballino; che ti pare? troveremo da divertirci?
– Anzi, riuscirà una gita delle più amene.
– Ma troveremo poi una dozzina di asinelli pronti per domani?
– Non dubitino, signori; lascino fare a me. Di questa merce havvene dappertutto in abbondanza, e non ne siamo senza noi giudicariesi.
– Dunque fa le cose in regola.
– E pel pranzo hanno intenzione di ritornare o no? Bisogna che lo sappia per dare eventuali ordini alla cuoca.
– Il pranzo lo prenderemo colassù, anzi tu, domani, ci precederai di qualche ora col tuo cavallo, ed allestirai il tutto, alla solita ora, presso alcuno di que’ albergatori. E perché non avvenga che la nostra presenza numerosa non ci faccia stare a denti asciutti prenderai teco alcunché del più necessario.
– Ho capito; stieno tranquilli che non mancherà nulla; a loro il fare una buona alzata domattina e vedranno che l’asinata riuscirà completa. Sono le ore 5 mattutine; il cielo è perfettamente sereno; il sole già indora le cime de’ monti e giù giù va impossessandosi de’ colli aprichi; una brezzolina fresca fresca, che spira dalle rive della Sarca, ti scaccia ogni residuo di sopore e ti fa lesto come un capriuolo.
Fatta colazione, lasciamo l’albergo per passare al di là della Duina ove in ordinata falange ci attendono i biblici corsieri.
La nostra presenza, numerosa anzicheno, ed in vario uniforme, mette l’allarme ed un urrà fragoroso ed ingratissimo scoppia da quelle rauche fauci asinine. Oh! musici dell’avvenire, quale occasione propizia per ispirare il vostro nordico genio!.. Ma non v’è tempo da perdere. Compagnia! in piedi in istaffa… uno, due… e tre!.. eccoci in arcioni! la briglia in mano…. attenzione…. ar….ri..i..i.i….. Trach, trach, trach…. il pelottone è in perfetta marcia… Addio a chi resta; arri….vederci!
Per la scorciatoia di Rotte ben presto guadagniamo l’altura del Convento di Campo, di cui già parlammo e che ora mi si dice eretto nelle gravi calamità degli anni pestiferi 1630 e 1631. La via continua lungo il muro dell’ex convento portante capitelli della Via Crucis, e poi prosegue l’estremo lembo a sera della bella spianata; a destra un’ameno boschetto di pini a dolce pendio ci imparadisa di saluberrimi profumi. Ma eccoci di fronte Castel Campo, scendiamo la romita valletta onde più davvicino ammirare questo storico castello che tuttora resiste di buon stato agli insulti delle bufere. Il vescovo trentino Aldrigheto (1232-1247) era oriundo di qui; ed i Galasso ne restarono padroni fino sotto il Vescovo Giovanni IV Hinderbach, mentre estinta la loro prosapia, passò poi il feudo nel 1470 alla famiglia Trapp, la quale tutt’ora lo possiede.
Da qui per Curè (anticamente Cugoredo) passando per Stumiaga, l’ombrosa, (è nientemeno che coperta di rame… di noci) deviando a destra ove c’invita un campanile alla ghibellina, siamo presto a Fiavè. È questo senza confronto il paese più popolato del Lomaso e, se vuolsi, anche meglio fabbricato, mentre forma quasi una sola contrada lunga assai. Oltre due piccole chiesette ai capi, nel mezzo, a fianco di spazioso piazzale, s’erge il nuovo tempio. Se felice n’è la posizione, la correttezza dello stile non sembra tale ai nostri occhi profani; una sola navata senza quelle lunghissime e sottilissime colonne, col campanile a fianco, piuttosto che sulla facciata, sarebbe stato più pratico e conforme agli usi giudicariesi. Fiavè è luogo importantissimo nella storia patria, perché nel passato diede uomini illustri non pochi. Godo ricordare: Calepino Podestà di Trento sotto il Vescovo Filippo Bonacolsi (1289-1303) dal cui nome s’appellò la contrada Calepina; Giacomo Nascimbeni notaio in Arco; tre fratelli Levri (de Leporibus) i quali se d’inverno abitavano in Arco (1565) nell’estate villeggiavano qui, e Lelio era uomo singolare e capitano nella milizia. Questa famiglia era in intima relazione coi conti d’Arco e coi Principi Vescovi di Trento, mentre sì gli uni che gli altri si trovano padrini al battesimo della prosapia Leporina. Nel 1682 Domenico Tonini era vicario di Stenico e comissario d’Arco, e poi giudice; nel 1691 Domenico Zeni ViceVicario di Arco ed altro Antonio Zeni Canonico di Trento nel 1709, senza nominare il notaio Antonio Armani, condannato nella guerra delle noci.
Le case che si estollono qua e là, di maggior appariscenza delle altre, nel bislungo paese, sono appunto quelle abitate dalle illustre famiglie, e quella de’ Levri serba ancora della serietà medioevale. Lasciate le selle per pochi momenti, per una seconda colazione, e brindato con un bicchiere di Trebbiano di Dro ai presenti, onde emulino i loro maggiori a belle imprese in buona unione, prendemmo tosto a proseguire il viaggio. Appena oltrepassato il villaggio, scorgesi innanzi a noi la Torbiera, anni fa lago; e dopo pochi minuti valicammo il ponte presso il quale esistono gli avanzi della ora abbandonata cava di Torba ch’era d’una società francotrentina. Ora che la torba si presta così bene come lettiera di cavalli e bovini, non si potrebbe forse con miglior esito avviare ancora un commercio lucroso? Faccio voti fervidissimi che, in vantaggio de’ boschi, si usi più abbondante la polvere di torba in questa valle eminentemente propizia alla pastorecchia, e che non manchi ancora l’esportazione di questo materiale fertilizzante, senza andare a ritirarlo dall’estero, come si fa in qualche parte del Trentino.
Lungo le sponde di questo laghetto, ora asciugato, furono trovate traccie dell’epoca preistorica umana nelle palafitte ed in alcune selci lavorate; se continueranno gli scavi con intelligente indagine, non mancheranno di venire alla luce nuove scoperte.
Oltrepassata la torbiera, la valle si restringe di molto sì da formare una semplice bocca di passaggio chiamata appunto lo sbocco di Ballino. Guadagnato la sommità del passo, ove le acque si dividono parte per Ballino e Fiavè, parte per Ballino-Riva, avemmo una grata sorpresa. Molti dei villeggianti in Ballino all’annunzio del nostro arrivo, portatovi dal nostro albergatore, vollero accorrere a darci il benvenuto ed al capitello ci stringemmo le destre e ci chiamammo amici. Fu ben differente l’incontro avvenuto nel Gennaio 1439 tra le milizie del Gattamelata (Erasmo da Narni) e quelle dirette dal Taliano Furlano e dal Capoccia proprio in questo luogo, colla peggio delle prime, che bivaccavano tranquille nei prati circostanti, senza il minimo pensiero d’un imboscata. Ma quelli erano Guelfi e Ghibellini, e noi eravamo tutti Trentini… Ecco la meta desiata; Ballino ci ha ormai accolti nelle sue mura secolari; smontiamo frettolosi e postiamoci al primo albergo, ove l’avanguardia sta preparando il desinare.
Rinnovata più davvicino l’amicizia coi villeggianti, caldi tutti d’amor patrio, pria ancora del pranzo traversammo assieme il paesello simpatico per fermarci alla casa ove abitò un grand’eroe d’amor nazionale ed appendervi una corona di rose alpine. (Piano signor Redattore colle forbici inesorabili, lasciatemi finire….) Andrea Hofer, l’invincibile eroe tirolese, da ragazzino veniva collocato dai genitori in Ballino come famiglio per apprendervi il caro nostro idioma, quasi presaghi di ciò che dovea divenire il loro figlio. Ritornato poscia in patria e divenuto col tempo supremo comandante del Tirolo, non dimenticò mai gli anni passati a Ballino, anzi vi si recò come generale per salutare i compagni d’infanzia, invitandoli a seguirlo nelle belliche imprese; ma quelli non si sentirono tanto fuoco marziale in corpo e si ricusarono. Conobbi de’ vecchi, defunti pochi anni fa, i quali furono coetanei dell’Hofer e lo rammentavano frequentemente nei loro racconti come miracolo di forza erculea. Oh! mutamento di tempi. I genitori di Hofer mandano il futuro salvator della patria ad apprendere nel Trentino la lingua italiana, – ed i loro connazionali presentemente vorrebbero distruggere questa lingua come malefica pianta; ove sta l’amor patrio? Diffatti se voi non vedete alcun tirolese far tappa in Ballino per onorare la memoria dell’eroe, anzi si cerca di nascondere questo grato episodio della sua vita, ora ne conoscete il perché…. e ciò meminisse juvabit…
Siamo a tavola e soddisfatto l’urgente appetito, i discorsi cominciarono allegri e piuttosto sussurroni, proprio alla montanina. Pria di levare le mense, ritornarono gli amici villeggianti, ed assieme a loro furono vuotate alcune bottiglie di quel d’Arco. A questo punto il direttore della compagnia s’alza, ed intimato il silenzio, così parlò: Fratelli trentini! Interprete sicuro dei vostri sentimenti nazionali, impressionato da questo luogo, ove l’eroe tirolese, apprendendo l’italica favella, s’ispirò, coll’aure che qui soffiano dal tepido Benaco, al verace amor di patria, di cui mostrò poi con esempio imperituro, come per la patria si combatte e come si muore; protestando contro l’inutile, ma pure iniqua guerra, che degeneri nipoti ora fanno al nostro sacro e dolce idioma con propaganda perfino antiaustriaca; onde ad esempio del martire di Mantova noi pure sappiamo fino alla morte combattere imperterriti pei nostri patrii diritti, sempre ossequenti alla costituzione che ci regge, brindo alla memoria di Andrea Hofer…. Un evviva prolungatissimo e ripetuti bravo furon la risposta unanime della brigata; la quale, dopo aver passato alcune ore in armonia cordialissima, con canti patriottici e con lieti discorsi, si sciolse alle 4 p.; e dati gli addii, il nostro pelottone, inforcati gli arcioni, ritornossi donde partì.
(Continua)
IX.
Excelsior!
Non vi spaventate dal titolo, pazienti assidui; non crediate che ora stia per farmi perfetto alpinista e mi dia ad ascendere le altezze montanine di questa bella tra le belle plaghe del Trentino. Non mi sento da tanto; primo perché non vorrei farvi rabbrividire colle vive descrizioni di ascensioni pericolose, di traversate da camosci, di nevi, di bôra turbinosa, di tormenta che acceca, di morene a sbalzi, di ghiacciaj lisci, lisci e vedermi colla facile vostra fantasia arrampicare di balza in balza, di scheggia in scheggia, o cinto i lombi della corda salvatrice, preceduto e seguito dalle guide esperte con la destra armata del baston d’alpe, arrivare vittorioso alla cima desiata al grido enfatico Excelsior! oppure perduto nella immensità degli spazii glaciali senza orma di sentiero, o come festuca in vetro caduto nei numerosi crepacci, e magari precipitato da enorme altezza povera vittima del coraggio, come avvenne poco fa ad altri soci della Iungfrau! Dunque niente di tutto questo e per secondo, pensate che sono sotto cura per ugolite ed ammessa anche la guarigione la più perfetta, la mi parrebbe una imprudenza imperdonabile il mettersi in tali pericolosi cimenti. Ma e perché adunque il titolo sopraposto? Non è dessa una profanazione? Signori no, protesto subito; e per mia giustificazione vi dichiaro, che qui si tratta proprio di una ascensione alpina, ma di terzo ordine fatta tutta sulla toppa, direbbe questo popolo cioè su zolla erbosa e fiorita su su fino alla cima, e tale da essere falciata ogni anno dall’uomo, senza aiuto di carpelle ed ove peri no usano pascolare tranquilli il bue e la vacca! Ciò non profana la sublime parola, niente affatto, perché è un excelsior reale, realissimo per noi bevitori di acque cumane, ai quali il moto gambettiano non è ancora in tutta regola. E per dove ci condurrete colle vostre strambe distrazioni? Sul Monte Casale. Per dir vero altre ascensioni comodissime o bellissime si danno in questa valle, come quella di Misone a mezzogiorno, di Serra a sera, e di Pisso a settentrione, ma noi preferiamo il Casale onde godere de visu le bellezze descritteci dal Caccianiga, e che si trovano riportate nel libro di III Classe delle nostre scuole popolari, e al caso correggere qualche espressione o troppo enfatica od erronea. Anzi, con licenza presunta dell’esimio scrittore, riporterò senz’altro le stesse sue parole con qualche parentesi, che mi sfuggirà tra via. Se giungerò a stancare il lettore, pazienza; pensate che andiamo su per l’erta montana…
“Terminate le gite nei d’intorni di Comano (cioè Bagno di Comano), così Antonio Caccianiga, mi restava un desiderio; vedere dalla cima d’un monte questo vasto anfiteatro di colline, le valli, i laghi ed i torrenti che circondano le Giudicarie. Un buon amico, udito il mio desiderio, mi consigliò di andare sul monte Casale, alto 2900 metri (circa 2000 soltanto) e collocato in posizione opportuna per dominare un vasto orizzonte. Ho seguito questo consiglio, e ne rimasi pienamente soddisfatto”.
“Fatte le debite provvigioni di vittuaria, siamo partiti da Comano (bagno) alle 5 del pom. per giungere sulla cima del monte prima del levare del sole, (si vede che il Caccianiga e compagnia erano pure amanti delle tappe, perché come si vedrà, impiegarono più di 10 ore ad ascendere la cima del Casale, mentre in quattro ore comodamente vi si arriva. La strada più breve sarebbe per Poia-Godenzo-Malga delle Mosche, mentre quella Vigo-Lundo viene ad allungarsi d’un ora.) Eravamo sette persone, e a Vigo si raddoppiava la brigata” (ed ivi si fece una fermatina piuttosto morosa come si vede da quello che segue).
“Giunti al paesello di Cajano (un semplice casolare con tre famiglie) sopra un’eminenza, che domina la valle ci si presentò la chiesa del villaggio, (cioè l’antichissima e classica chiesa decanale del Lomaso.) La povera popolazione erasi raccolta nel tempio, e intuonava un’armonioso inno alla Madonna (essendo festa si recitava il Rosario col canto delle Litanie). Dalle invetriate della chiesa usciva una luce rossastra che illuminava i contorni della fabbrica e degli alberi più vicini; tutto il resto era immerso nelle tenebre e solo si vedevano nel profondo della valle i lumicini delle case, che parevano un riflesso delle stelle. Ci siamo arrestati a contemplare quella scena stupenda ed ascoltare que’ canti. Nessuna musica solenne di cattedrale mi lasciò nell’anima una rimembranza più serena di quel semplice canto di poveri pastori, nel mezzo della notte”. (Pure tali funzioni religiose così dolci ed edificanti non si praticano facilmente da cristiani in gabbana lustra, hanno altri divertimenti a quell’ora!)
“Seguitando sempre la via attraverso il colle che forma la base della montagna, si procedeva in silenzio, ciascuno coi proprî pensieri, e coll’animo concentrato in solitarie meditazioni. Il firmamento brillava di stelle, e le creste de’ monti più lontani si disegnavano nel fondo azzurro con linee nette e precise”. (Essendo notte non vide lo scrittore il Castello Spina, importante nella storia di queste valli, posseduto dai Conti d’Arco ed ora da privati, il quale siede a mezzo il colle percorso.)
“Erano vicine le 10, quando arrivammo a Lundo. La popolazione di questo villaggio era immersa in sonno profondo, e l’osteria era chiusa. Noi battemmo alla porta, che finalmente si aperse, e potemmo entrare al coperto. Prima di tutto si fece un buon fuoco, una bella fiamma che crepitava innondando di denso fumo l’angusto locale, ma era una consolazione trovarsi davanti un focolare, e vedere la brava ostessa che dava l’ultima pulitura alla caldaja (un pajuolo probabilmente) per fare la polenta. Quando tutto fu all’ordine, sedemmo intorno alla improvvisata imbandigione, resa squisita dall’aria della montagna, e dalle fatiche del lungo pellegrinaggio. (Certamente fu lungo se dal Bagno di Comano a Lundo vi arrivarono dopo 5 ore! Ma noi in modesta compagnia di tre compagnoni, appena appena impiegammo due sole ore a giungervi, e fummo contentissimi di ciò, perché ebbimo tempo di scorazzare pel paese a salutarvi vecchi amici ed ammirare i grandi progressi pastorecchi di quel laborioso ed industrioso paese prima che la notte stendesse il nero suo manto. Rinfrescata l’ugola appena arrivati, visitammo il casello sociale, che fin quì è il primo di tutto il distretto e ridotto in tutto progresso. I suoi prodotti sono buoni, anzi il burro ne è ricercatissimo, ma è riservato quasi esclusivamente per Arco. Ben a ragione quindi quella direzione sociale vi mostra con compiacenza le onorificenze e le medaglie avute in varie esposizioni. I vantaggi indiretti poi di questa istituzione sono molti e tra questi l’aumento de’ bovini accresciuto del doppio. Bravi Lundesi! E’ così che si vincono le vecchie insulse tradizioni, e si dà esempio di vero progresso, il quale da altri si vorrebbe far consistere, invece nel saper divertirsi ammodo con teatri e danze. Poveri illusi!.. Noi pratici un po’ del paese ci affrettammo a correre sul colle alle Colombine per ammirare uno di que’ tramonti del sole che imparadisano, e per rinnovare l’incanto della nuova prospettiva di questa indimenticabile vallata.
Restammo estatici alle varie scene incantevoli; e colle braccia al sen conserte ci assalse il sovvenir di altri tempi, che finì nell’enfatico canto:
Vi ravviso luoghi ameni ecc…
Cercammo poscia di precisare la casa ove nacque il Sacerdote Giovanni Bottesi, per segnarvi una memoria ai posteri con un distico latino favoritoci da un Reverendo di Lomaso versato in latinità e giusto apprezzatore del merito morale sopra il letterario, con cui dedicava alla immortalità le due grandiose apparizioni spuntate sulle spiagge di Lomaso, le quali onorando il secolo passato e presente, potrebbero ingenerare un fremito irresistibile a seguire le orme generose e di tanta rinomanza; ma la breve sosta non ci permise di compiere le ricerche. A più pratici del luogo il farlo, mentre con pace del proto mi permetto trascrivere i due versi ad edificazione de’ lettori. Eccoli colla loro traduzione in lingua vernacola.
Iactet Dasindum, Materque micantia Vatis;
Splendidius Lundum Bottesi Ianne suo.
“Vanti pure Dasindo colla Madre patria la gemma splendida del suo Poeta;
Lundo va ben più glorioso pel suo eroe Don Giovanni Bottesi.”
Ma veniamo finalmente al Caccianiga, che continua: “Ad un’ora dopo mezzanotte una esperta guida di Lundo, che ci avevano assicurata per la salita, venne ad avvertirci che bisogna partire. Le salite notturne sono monotone e tristi; da lontano un oceano profondo di tenebre, da vicino vaghe ombre confuse. Pochi rumori rompono il silenzio della notte; uno stormire di frondi, un sasso che rotola dalle cime, un ruscello che mormora tra le frane, il fischio di qualche uccello spaventato che fugge all’avvicinarsi dell’uomo”.
“Verso il crepuscolo l’aria si andava raffreddando, e spirava un venticello alpino piuttosto piccante. Allora si fece una sosta; la guida andò in traccia di rami secchi e resinosi ed accese un fuoco che ci riscaldò le membra irrigidite dalle brezze dell’aurora. Poco dopo ripresa la via, salimmo sopra ampie ondulazioni di terreno prativo, ove cessano gli alberi e gli arbusti, e la montagna si copre di estesi verdeggianti pascoli, coperti di fiori alpini e di erbe odorose. È questo il sommo del monte e dicesi le Quadre, dalle quali si ascende facilmente fino all’ultima vetta del Casale, che è una roccia saliente dalla prateria e che si denomina il Cornasel“.
“Siamo giunti in cima al Cornasel pochi minuti prima del levare del sole e salutammo con unanimi applausi il primo raggio che comparve sull’orizzonte a rischiarare il sublime panorama delle Alpi tirolesi!” (ed io dico trentine.)
“Ogni disagio della via è dimenticato davanti a tale spettacolo! Girando gli sguardi intorno si domina uno stupendo anfiteatro che incomincia alle nevi della Tosa e discendendo fra gli scaglioni dei monti sottoposti e dai colli, termina giù nelle valli”.
“Da questa sommità si contemplano i numerosi laghi, in cui specchiansi le circostanti montagne. A mezzodì il Garda bagna le falde del Montebaldo e l’occhio, girando verso settentrione, passa per la Val d’Arco per le Marocche ed il lago di Cavedine. Poi si vede il lago di Toblino, indi i tre laghi (quondam) di Terlago, e più in alto le acque del lago di Pinè, brillanti al sole, e da un lato il monte Gazza e il lago di Molveno“.
“Contemplato lungamente l’insieme dell’imponente prospettiva, passammo in rassegna col cannocchiale i vari punti distinti, e i paeselli che sorgono sui fianchi delle montagne. Ai nostri piedi le nude scogliere scendevano al basso fra spaventosi precipizi, e la maestosa grandezza di quelle alpi impiccioliva ai nostri sguardi gli oggetti lontani talmente, che i fiumi ci parevano nastri azzurri, i torrenti somigliavano a esili fili d’argento, i paesi a piccoli gruppi di casipole fatte per trastullo dei fanciulli; e l’uomo, questo essere orgoglioso, ci compariva come un punto nero insignificante e perduto nello spazio”.
“Prima di scendere, volli raccogliere un mazzo di fiori alpini, che formavano un variopinto tappeto sul verde fondo del prato; e ne trovai di stupendi. Non potea distaccarmi da quel giocondo giardino, da quelle sublimi e solitarie cime che innalzano il pensiero dell’uomo, e lasciano nell’anima una rimembranza perenne. Ma la nostra guida mi annunziò la partenza della carovana, e m’invitava a seguirla. La discesa fu faticosa assai più della salita (non capisco ciò, perché a noi fu deliziosa invece) e giungemmo allo stabilimento dei bagni all’ora del pranzo, in uno stato tale da somigliare ad un drappello di fuggiaschi dopo una battaglia campale. Ma con un po’ di riposo si ripigliano le forze, si dimentica la fatica, e resta nell’animo la memoria del sublime spettacolo della natura, contemplato dalla cima delle Alpi. (Noi invece, partiti dalle ore 8 dalla cima del monte, scendemmo placidamente per altra strada e dopo la malga delle Mosche discesi fino al paesello di Comano gustammo un’allegro scampanio di buonissimo concerto di campane; indi passammo a Godenzo nella cui Chiesa si vedono dei buoni dipinti ed una lapide romana, alla dea Fortuna, capovolta e che serve di ceppo al vaso dell’acquasanta. Altre memorie antiche trovansi nella Chiesetta di S. Giorgio a Poja. Sotto il Vescovo trentino Giorgio II (1446-1465) ottennero, in segno di gratificazione per servigi segnalati prestati, il titolo di nobiltà le famiglie Burati di Comano, Berti, Pasi e Formaini di Poja, assieme ad altre famiglie di questa valle; Pellegrini, Butalossi, Parisi, Giordani ebbero per giunta il diritto di decima. Di Poja insigni sono la famiglia Alberti (passata a Trento nel 1550, da cui poscia il Vescovo Francesco, 1677-1689) e Lutti, di cui Orlando, Giann’Antonio ed Andrea nel 1614 ottennero diploma di nobiltà. Esistono ancora ben distinte dalle altre le abitazioni di queste famiglie. Nel 1274 sotto il Vescovo Enrico II ebbe buon nome un Brunomonte di Poja. Ma l’orologio battendo le 11 ore ci fa sollecitare la discesa al nostro albergo per l’ora del pranzo; nel quale ad onta della stanchezza abbiamo fatto la nostra parte con discreta infamia.
(continua)
X.
Per finire.
– Signor no; questa sera non si parte; adesso che siamo sul più bello della stagione balneare, piantarci qui all’improvviso; gli pare creanza?
– Benedetti mille volte! non vedete la lettera capitatami or ora che mi sollecita al ritorno? Gli affari sono importantissimi; la famiglia, la moglie, i figli già questa sera mi aspettano a braccia aperte tutti desiderio di vedere coi loro propri occhi il portentoso effetto di quest’acque. Il deluderli, solo anche di mezzo giorno, sarebbe cosa troppo dolorosa, sicché, scusatemi, questa sera debbo assolutamente lasciare la vostra compagnia.
– Eh vediamo anche noi che giustissime sono le sue ragioni; però non vorrà mica per questo lasciarci qui con due desiderj insoddisfatti, ed in quest’ora di aspetto per la partenza, almeno ci dica alcunché di quello che ha promesso; lo deve, perché sa che promissio boni viri est obbligatio.
– Benissimo, ma di grazia, quale promessa mi tiene con voi? La mia distrazione è al colmo, e non ricordo proprio nulla.
– Come? Non ci promise da bel principio un po’ di storia balneare?
– Sì, vero; ma per narrare una storia, i fatti ne devono essere maturi; e di questa tutti non lo sono ancora, per cui mi pare non essere giunto peranco il tempo opportuno; quod differtur non aufertur, alla più lunga un altro anno, al nostro ritorno alla fonte cumana per gratitudine, do parola d’onore di raccontarvela per latum e per longum a costo d’annoiarvi. C’è altro ora?
– Signor si; ci promise raccontarci il secondo fatto storico nel quale i Giudicariesi fecero un po’ di ribellione all’autorità costituita.
– Bravissimi avete buona memoria e non ve ne sfugge una. In questo mi è facile accontentarvi perché ho qui tutto notato sul mio portafoglio. Eccovi quanto: Demolizione del Dazio di Tempesta sul Lago di Garda. 21 Agosto 1768.
Per estinguere il debito Camerale d’Innsbruck, ascendente a 3 milioni di fiorini, furono imposti alle 7 Pievi 100 funti steorali, i quali dietro supplica del Sig. Lodovico de Lutti, furono ridotti a 60 e poscia per povertà a soli 45.
Què di Condino e Rendena, dietro benigna esortazione di S. A. R. Cristoforo II Sizzo de’ Noris in occasione di Sacra Visita, si assoggettarono all’imposizione e pagarono la loro quota in Trento. Ma i più arditi di Tione e Pieve di Bono, sussurrando di casa in casa, di villa in villa, e facendo proteste della lesione dei loro diritti in questo punto ed ancora per la grave ed insopportabile gabella del nuovo dazio messo a Tempesta, finirono coll’unirsi a consiglio e stabilirono addirittura di andare ad abbattere il dazio. Ciò avveniva ai 10 Agosto. La Comunità di Tione prese a censo 1000 troni, onde sovvenzionare gli arditi demolitori, che si tassarono 6 troni al giorno. I caporioni corsero di villa in villa a far gente; minacciavano i renitenti ed infine la turba assalitrice si avviò verso Tempesta chi per Ballino, Riva e Torbole, chi per Val di Ledro e Limone. Ripartiti in antecedenza i posti e le azioni di notte tempo, si avviarono per ogni parte al Casino del dazio, diedero fuoco ai legni e gettarono il resto nel lago. Ritornando i demolitori in Riva, estorsero da varie case delle mancie e ritornando nella valle, giunti al bivio tra Fiavè e Cavrasto, spartirono tra se gli importi e toccarono ad ognuno 17 soldi! Parte andò a Stenico ed occupate le strade ed il campanile e spiegata in piazza la bandiera del dazio, fece insulti al Castello facendo sloggiare i curiali e la famiglia del Luogotenente.
Si proseguì poscia il restante d’Agosto in Settembre e parte di Ottobre, massimamente le feste, a praticare violente estorsioni di mancie per questo misfatto. Ma giù correva la voce che sua Maestà stava per mandar soldati a vendicare sì enorme offesa, e si temeva a tutta ragione di pagarne il fio d’avvantaggio. Allora si tenne Consiglio generale dai preposti della Valle ai 13 Ottobre e furono deputati due legati ad implorare in Innsbruck il perdono, cioè il sig. Lorenzo de Lutti e Girolamo Stefanini. Intanto giunse a Riva la truppa e si buccinava che veniva in Giudicarie a fare man bassa. I demolitori si ammutinarono e al tocco di campana martello si eccitavano a correre armata meno contro la truppa. Alle preghiere del Sig. Stefanini, il quale assicurava anche colle proprie sostanze, che i soldati venivano solo per la pubblica quiete, i tumultuanti si aquietarono ed andarono alle case loro.
Formato più tardo il processo, il Consiglio Aulico di Trento finalmente emise la sentenza ed in causa di questa tre capi principali furono decapitati a Tione e le comunità condannate a pagare tutte le spese ed una grossa somma di danaro.
La tradizione poi soggiunse che le teste dei decapitati furono messe in cima a pali sul passaggio del Durone a terrore del popolo di quà e di là del monte. Fino al giorno d’oggi si segna il luogo ove erano posti i pali colle teste; evvi un sasso di granito chiamato il sasso delle teste. E con ciò ho finito.
– Grazie del complimento! La lezione avrà avuto buon effetto non è vero?
– Eccome! Già vi dissi che il popolo giudicariese fu sempre fedele tra fedelissimi alle costituite autorità, e se due sole volte si ribellò, fu proprio tirato pe’ capelli, e dopo i castighi avuti se ne restò sempre mogio mogio fino al presente, e credo lo sarà in avvenire e in perpetuo, amenochè non succedano circostanze peggiori di que’ tempi disgraziati.
– Preghiamo che ciò non avvenga.
– Speriamo che l’autorità sia sempre benigna a soccorrere questo popolo fedele ma sempre bisognoso. Specialmente nella corrente annata fu disgraziatissimo. Gelo e brina in primavera; siccità in estate; gragnola al presente, scarsissimo il vivere per il popolo e peggiore quello pel numeroso bestiame, il quale è a vilissimo prezzo e chiuso dai dazi nella cerchia di questi monti. Il sospendere il dazio sulla polenta italiana è il primo sussidio che si potrebbe dare a queste valli, e l’impetrare il passaggio libero in quest’autunno pei bovini nel vicino regno sarebbe il secondo. Il popolo non spera più nulla perché è troppo uso a pagare e mai a ricevere; ma almeno si facciano vivi i nostri Consorzii agrarii distrettuali ed i Comuni e tentino con regolare petizione presso le competenti autorità queste due esenzioni. I nostri deputati sia alla Dieta sia al Consiglio d’Impero appoggino o meglio prendano l’iniziativa di questo affare il quale è dei più, seri….
Ma il bucefalo è pronto… l’ora è tarda… la via lunga… dunque addio a tutti e se a Dio piace ad un’altro anno.
– Addio, carissimo sig. distratto, ci conservi la sua amicizia e ci favorisca il suo riverito nome per eventuali bisogni. Chi sa ?
– Volentieri, eccolo:
Antonio Rivolta
Trentino.
Soggetto produttore: | “La Voce Cattolica”, n. 76, n. 78, n. 80, n. 81, n. 84, n. 87, n. 90, n. 91, n. 93, n. 98 |
Data: | 07/07/1887, 12/07/1887, 16/07/1887, 19/07/1887, 26/07/1887, 02/08/1887, 09/08/1887, 11/08/1887, 16/08/1887, 27/08/1887 |
Pseudonimo: | Antonio Rivolta Trentino |
Descrizione: | In quest’opera don Guetti descrive e visita i paesi delle Giudicarie Esteriori fingendosi un turista che parte da Trento per curare “una forte ugolite” al Bagno di Comano. Con maestria racconta la vita sociale dei paesi, ne esalta l'ambiente naturale tanto da paragonare le Giudicarie Esteriori alla Svizzera. Con ciò non risparmia rimproveri a chi non ha saputo proteggere reperti storici e alla comunità che non difende le sue testimonianze storico culturali, ma lo fa sempre con sguardo lungimirante e pensiero positivo. |